L'immigrazione come problema e ricchezza


Verso una società multiculturale

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Nei giorni 21-22 settembre 2007 si è tenuto a Firenze un convegno sul tema "Verso una società multiculturale". Vi ha preso parte anche mons. Agostino Marchetto, segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti. Ecco una parte del suo intervento. Mi sono permesso di mettere in risalto alcuni concetti.

(...) Con l’immigrazione, la società italiana si avvia ormai ad essere una società multi-etnica e multiculturale, da cui nasce la questione del come rendere massimi i vantaggi e minimi i problemi posti dalla convivenza tra persone di diverse culture, civiltà e religioni.

Nel Messaggio per la Giornata della Pace del 2001, Giovanni Paolo II invitò tutti a “riflettere sul dialogo tra le differenti culture e tradizioni dei popoli” considerato “la via necessaria per l’edificazione di un mondo riconciliato, capace di guardare con serenità al proprio futuro, … decisivo per le prospettive della pace". Del resto aggiunse: “Si resta sempre meravigliati di fronte alle manifestazioni complesse e variegate delle culture umane”, ciascuna delle quali “si diversifica dall’altra per lo specifico itinerario storico che la distingue, e per i conseguenti tratti caratteristici che la rendono unica, originale e organica nella propria struttura. … Questa ‘tipicità’ di ciascuna cultura si riflette … nelle persone che ne sono portatrici”. In effetti non esistono culture in astratto ma incarnate nelle persone, e dato che la cultura è espressione “dell’uomo e della sua vicenda storica, sia a livello individuale che collettivo”, non è qualcosa di fisso ma soggetta a modifiche, grazie alle esperienze vissute segnate da una “costante dialettica tra la forza dei condizionamenti e il dinamismo della libertà”. Essa dunque si plasma “attraverso la famiglia e i gruppi umani con i quali [la persona] entra in relazione, attraverso i percorsi educativi e le più diverse influenze ambientali, attraverso la stessa relazione fondamentale che ha con il territorio in cui vive”. Tale processo però, mentre procede spontaneamente nella terra natía, non è altrettanto immediato nella società d’emigrazione.

Trovandosi infatti in un nuovo ambiente, l’immigrato “diventa spesso più consapevole di quello che egli è”, per cui potrebbe accadere che egli rifiuti le altre culture che, a suo avviso, mettono in pericolo la propria identità, assumendo così atteggiamenti di chiusura che possono portare alla formazione di ghetti, con conseguente emarginazione. L’estremo opposto, invece, è “la supina omologazione delle culture”, adattandosi al modello di vita locale senza il minimo tentativo di vagliare ciò che gli succede. Ne deriva in questo caso l’assimilazione dell’immigrato che, avendo trascurato o inconsciamente soppresso la propria identità culturale, diventa quasi “copia” dell’autoctono, privando così la popolazione locale del contributo arricchente che la propria cultura potrebbe dare.

Quale allora deve essere il rapporto tra immigrato e società di accoglienza? “La via da percorrere – affermò ancora Giovanni Paolo II – è quella della genuina integrazione, in una prospettiva aperta, che rifiuti di considerare solo le differenze tra immigrati ed autoctoni” ed aprendosi per accogliere gli aspetti validi dell’altro, miri “a formare società e culture … [che sono] sempre più riflesso dei multiformi doni di Dio agli uomini”.

Da un lato è importante saper apprezzare i valori della propria cultura, ma dall’altro occorre essere consapevoli che “ogni cultura, essendo un prodotto tipicamente umano e storicamente condizionato, implica necessariamente anche dei limiti”, per cui non bisogna chiudersi agli altri, bensì conoscere serenamente, senza pregiudizi negativi, le loro culture. Del resto, esse “mostrano molto spesso, al di sotto delle loro modulazioni più esterne, significativi elementi comuni”. Come per la persona umana, che si realizza attraverso l’accoglienza dell’altro e il dono generoso di sé, anche le culture “vanno modellate coi dinamismi tipici del dialogo e della comunione, sulla base dell’originaria e fondamentale unità della famiglia umana” e la basilare uguaglianza di tutti gli esseri umani e popoli, dotati di dignità, con relativi diritti e doveri.

Nel dialogo si salvaguardano le culture sia nelle loro peculiarità che nella loro reciproca comprensione e comunione. Avviene così un arricchimento reciproco e la società si trasforma in un mosaico, dove ogni cultura ha il suo posto nel comporre un’unica figura, sempre più bella nella molteplicità delle culture, secondo il primordiale disegno d’unità del genere umano. Questo esige che “l'umanità tutta, al di sopra delle sue divisioni etniche, nazionali, culturali, religiose, formi una comunità senza discriminazioni fra i popoli, e che tenda alla solidarietà reciproca” e “le diversità dei membri della famiglia umana siano messe al servizio di un rafforzamento della stessa unità, anziché costituire un motivo di divisione”.

E’ da notare che l’integrazione non è un processo a senso unico. Sia gli immigrati che i membri della popolazione locale devono essere disposte al dialogo, giacché esso è il motore dell’integrazione. Bisogna comunque tenere saldi, ovunque, alcuni punti fermi. Eccoli:

* Il dialogo fra persone di culture diverse si faccia “in un contesto di pluralismo che vada oltre la semplice tolleranza e giunga alla simpatia”, in un atmosfera “di autentica comprensione e benevolenza"

* Occorre ricordare che “gli immigrati vanno sempre trattati con il rispetto dovuto alla loro dignità di persona umana”. A questo principio “deve piegarsi la pur doverosa valutazione del bene comune, quando si tratta di disciplinare i flussi immigratori”. Bisogna cioè “coniugare l’accoglienza che si deve a tutti gli esseri umani, specie se indigenti, con la valutazione delle condizioni indispensabili per una vita dignitosa e pacifica per gli abitanti originari e per quelli sopraggiunti”.

* Vanno dunque rispettate e accolte le istanze culturali di cui gli immigrati sono portatori, a condizione che “non si pongono in antitesi ai valori etici universali, insiti nella legge naturale, ed ai diritti umani fondamentali”. Infatti “l'apertura alle diverse identità culturali … non significa accettarle tutte indiscriminatamente” pur rispettandole perché inerenti alle persone ed eventualmente apprezzandole nella loro diversità.

* Per quanto riguarda le specifiche espressioni culturali degli immigrati “che non facilmente si compongano con i costumi della maggioranza dei cittadini”, occorre avere “una cultura dell’accoglienza che, senza cedere all’indifferentismo circa i valori, sappia mettere insieme le ragioni dell’identità e quelle del dialogo”. E’ cioè necessario “garantire a un determinato territorio un certo ‘equilibrio culturale’, in rapporto alla cultura che lo ha prevalentemente segnato … che, pur nell’apertura alle minoranze e nel rispetto dei loro diritti fondamentali, consenta la permanenza e lo sviluppo di un determinata ‘fisionomia culturale’, ossia quel patrimonio fondamentale di lingua, tradizioni e valori che si legano generalmente all’esperienza della nazione e al senso della ‘patria’".

* “Nella prospettiva poi del dialogo tra le culture, non si può impedire all’uno di proporre all’altro i valori in cui crede, purché ciò avvenga in modo rispettoso della libertà e della coscienza delle persone”.

* E’ perciò “assai importante che lo Stato assicuri e promuova efficacemente la tutela della libertà religiosa in particolar modo quando, accanto ad una forte maggioranza di credenti di una determinata religione, ci sono uno o più gruppi minoritari aderenti ad un'altra confessione”. E qui potrebbe emergere la questione della reciprocità.

Nel suo primo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, Benedetto XVI affermava: “Tutti gli uomini appartengono ad un'unica e medesima famiglia. … Occorre ricuperare la consapevolezza di essere accomunati da uno stesso destino, in ultima istanza trascendente, per poter valorizzare al meglio le proprie differenze storiche e culturali, senza contrapporsi ma coordinandosi con gli appartenenti alle altre culture… La pace appare allora … non come semplice assenza di guerra, ma come convivenza dei singoli cittadini in una società governata dalla giustizia, nella quale si realizza in quanto possibile il bene anche per ognuno di loro”.

Si può dire dunque – e concludo – che “la pluralità è ricchezza e il dialogo è già realizzazione, anche se imperfetta e in continua evoluzione, di quell'unità definitiva a cui l'umanità aspira ed è chiamata”.